La lingua al limite. Kim de l’Horizon e Flurina Badel, due ontologie del dire

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Domenica scorsa si è concluso a Poschiavo il festival Lettere dalla Svizzera alla Valposchiavo, diretto da Begoña Feijoó Fariña, giunto quest’anno alla sua quinta edizione. Evento che ha reso un’altra volta la Valposchiavo protagonista della scena culturale svizzera: unico festival quadrilingue dopo quello di Soletta, a cui si è aggiunto come ospite il portoghese tra le quattro lingue nazionali – italiano, tedesco, francese, romancio. Il tema Tira fuori la lingua ha assunto un significato più radicale che linguistico: non solo un invito a parlare, ma un imperativo ontologico – esporre il linguaggio alla propria materia, togliere alla parola il suo privilegio rappresentativo, farla tornare corpo e azione.

Fra i molti incontri, due in particolare hanno rappresentato la tensione fra il linguaggio utilizzato come narrazione del sé o come mezzo di accadimento del reale.

Da un lato Kim de l’Horizon, con il romanzo Blutbuch (Libro del sangue, SUR), in dialogo con la traduttrice Silvia Albesano, e Flurina Badel, con la performance e lettura da Disgust, testo plurilingue in romancio vallader e inglese, dall’altro. Due autori e due operazioni letterarie che hanno portato la lingua al suo limite, ma da lati opposti. Nel primo caso, la lingua si pensa – si analizza, si riflette, si reinventa come identità. Nel secondo, la lingua si espone – si consuma, si corrompe, si rigenera in uno spazio che va al di là della narrazione del sé.

Kim de l’Horizon – La lingua genealogica

Sabato sera, in sala Tor gremita di pubblico, si è parlato di Blutbuch, di fatto l’evento più atteso del festival, opera dell’autore premiato con il Deutscher Buchpreis e lo Schweizer Buchpreis 2022. Maggiori sono le aspettative, maggiore è il rischio che queste non vengano completamente raggiunte. Molti cercavano appunto l’autore pluripremiato, ma ciò che è emerso dal dialogo con Silvia Albesano è più che altro un grande progetto linguistico.

Il romanzo parte da una frattura. Lo svizzero tedesco standard – lo Schweizer Hochdeutsch – è per de l’Horizon una lingua ereditata e costrittiva, “paterna”, incapace di contenere la complessità di un’identità fluida e transgenerazionale. Scrivere diventa per lui un atto di diseredità, un modo di incidere nel corpo stesso della lingua per farne emergere altre possibilità.

“Ich existiere erst, wenn ich geschrieben habe, was ich bin.” «Io esisto solo quando avrò scritto ciò che sono.» Non la lingua che racconta l’io, ma l’io che nasce nella lingua attraverso la narrazione.

Blutbuch è costruito su cinque sezioni, ciascuna caratterizzata da una diversa “linguisticità”. Il bernese, l’inglese, il tedesco standard e le forme ibride si succedono come membrane di uno stesso corpo testuale. Ogni passaggio linguistico è una mutazione. Kim de l’Horizon, in questo senso, lavora sulla lingua come un genetista sul DNA: non la cambia dall’esterno, la riscrive dall’interno.

La traduzione di Silvia Albesano prosegue questa metamorfosi.Tradurre Blutbuch non significa tradurlo, ma ricrearlo in un nuovo corpo. Il “ticinese inventato” per la voce materna – die Mea – non è un dialetto reale, ma un’invenzione linguistica che restituisce la distanza e la tenerezza della madre. In un passaggio emblematico, Albesano racconta di aver lavorato con parlanti reali per costruire un idioma poroso, che suonasse vero pur non essendolo. È la traduzione come co-creazione del testo.

Eppure, dentro questa meravigliosa architettura linguistica, qualcosa resta intrappolato. La lingua di Blutbuch si osserva allo specchio. È piena di coscienza, di riflessività, di volontà di dire il proprio dire. Ogni metamorfosi sembra controllata, e pure ogni frattura sembra pensata. E così, la lingua che libera il soggetto resta al servizio del soggetto, a rappresentarlo.

Kim de l’Horizon ©AlessandroBelluscio

Flurina Badel – Il disgusto come metodo, la lingua come fenomeno

Il pomeriggio seguente, Flurina Badel, scrittrice engadinese vincitrice del Premio letterario grigionese 2024, in una sala purtroppo non altrettanto piena, ha portato la lingua nel suo stato quasi ancestrale in una performance di Disgust. Fra vocalizzi che hanno suggerito un che di orientale e i suoni vibrati delle parole, cadenzate da battiti ritmici sul petto, il linguaggio ha cessato di essere un sistema e si è rivelato come fenomeno: una materia che sorge, vibra e si diffonde. Le parole di Disgust sono materia che reagisce chimicamente con ciò che sta attorno. Sembrano corrodere chi le ascolta per poi trasformarlo, a reazione avvenuta.

“Tü dist cha pleds nu valan üna püpa tabac” – «Tu dici che le parole non valgono una pipa di tabacco»: l’inizio del testo pone già il limite, la soglia da varcare. Da quell’impotenza si genera la lingua stessa come sopravvivenza, per arrivare alla “Lingua es üna soluziun infinta – an infinite solution”: ogni parola è una cellula che si disgrega per produrre calore; ogni residuo, una nuova forma di vita.

Il disgusto è il metodo attraverso cui questo processo si conosce. Non un sentimento morale, ma un principio cognitivo: costringe il linguaggio e il pensiero stesso al contatto con la materia, li obbliga a riconoscere la propria sostanza, per prendere coscienza di quanto reale è ciò che ripugna – che è in gran parte il nostro stesso modo di stare al mondo. E nel disgusto, il linguaggio smette di dominare il mondo, subendone invece l’impatto. È il punto in cui la lingua perde la propria purezza e guadagna conoscenza. Nel testo di Flurina Badel anche la parola si decompone, si mescola con il mondo e, reagendo, genera senso in una sorta di ecologia linguistica.

Ogni immagine – il vestito di seta, la terra scavata, la pioggia, la cenere – è un esperimento ontologico, un punto di contatto tra materia e pensiero. Il testo è costruito per collassare, per mostrare la conoscenza nel momento della sua crisi. Scrivere diventa un gesto di esposizione, un atto di resa attiva: lasciare che la lingua si corrompa per continuare a produrre vita. Il disgusto, in questa prospettiva, è un metodo epistemico: conoscere attraverso la decomposizione. Nel punto in cui il linguaggio cede, si rivela la realtà.

Così il romancio, lingua marginale e vulnerabile, diventa il laboratorio della lingua universale. Non lingua piccola, ma lingua che sa di poter morire, e proprio per questo è vera. Flurina Badel non protegge la lingua: la ascolta, la espone, la lascia tornare alla terra. Fa capire che la lingua non serve solo a dire il mondo, quanto a mantenerlo in vita.

Flurina Badel ©AlessandroBelluscio